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Dai diamanti non nasce niente

 

nîmes

Sull’inedito asse Nimes/Piacenza ecco un dialogo epistolare che ha visto impegnati il nostro Luigi e Matteo Meschiari, aficionado e autore di alcuni testi taurini tra cui “Uccidere spazi – microanalisi della corrida”/Dialogue sur l’axe Nîmes/Piacenza entre notre copain Luigi et Matteo Meschiari, aficionado italien et auteur de plusieurs bouquins taurins dont notamment “Corps nu – Abécedaire tauromachique”.

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Nimes, 25 maggio 2015

Caro Luigi,

ha a che fare con maggio, con le rondini che rigano le pietre dell’arena. Rue Victor Hugo, i platani, i denti di calcare là in fondo, le arcate, mentre la festa asciuga la notte e versa pastis sull’insonnia. Non riesco a farne a meno, nonostante Simon Casas e le ciarlatanerie compiacenti. Perché è lì che ho visto Tomas con sei vitelli a dimenticare il suo corpo, o Morante sul bordo di una sedia rubata al Café de la Bourse. È lì che ho visto un ultimissimo Rincon e Castaño fare qualcosa di grande con picca e banderillas altrui. Mezzitori e divi di Hollywood, cornuti collaborazionisti e ballerini in lutto per un padre suicida…

Ma il problema, il mio vero problema, è che ho visto Ponce graziare Anheloso, quel giorno, quando un matastar e un toro da salotto mi hanno fatto sentire per la prima volta che cos’è il duende, che neanche sapevo come si chiamava. Per questo ieri, ancora e ancora una volta, sono tornato sul luogo del delitto, ai 25 anni di alternativa di Ponce. E sarebbe stato molto più facile parlarti dei Victorino del pomeriggio, e di come Ureña sa cargar la suerte. Ma avrei dovuto entrare in un linguaggio tecnico ed esatto che, almeno nella mia bocca, sarebbe un po’ furbino e ammiccante, e che comunque non è mio. Scelgo la via in salita, invece, perché mi sono reso conto di una cosa importante, e che cioè la purezza, almeno nel mio modo di vivere la corsa, è qualcosa che mi allontana dalle lacrime.

E mi spiego.

Quando vogliamo raccontare a qualcuno il perché della corrida finiamo sempre lì, sulla morte pubblica di un animale e sul dare la morte a un animale proprio rischiando di morire. Ma dobbiamo ammettere che la morte la dimentichiamo quasi sempre, anche quando la guardiamo a ogni fine di toro, perché ci piace pulita, fulminante ed esatta, e non sporca e cattiva come in fondo è la morte, sempre e comunque. Ieri, vedendo l’hidalgo de Mendoza sbagliare cinque volte la morte del suo secondo toro, ascoltando le grida indignate del pubblico taurofilo, vedendo il macello avvilente, ho capito che invece l’errore mi serve molto, perché non mi fa addormentare con un sorriso complice sul cadavere incipriato. E l’altra morte, quella del torero, quella che oggi è un’opzione vaga, scongiurata da blocchi operatori così efficaci che avrebbero tolto a Manolete il suo mito, questa morte è quasi solo una parola. Il fatto importante, invece, è che il torero vive ma ci lascia sempre la pelle, in senso proprio, perché sono le ferite e le cicatrici quelle che contano davvero, quelle che escono dal cliché dei discorsi alla Wolff.

Quando un corno intruso rompe l’integrità del corpo, quando ci sentiamo offesi dal sangue umano, allora la stronzata della sacralità della morte si rivela per quello che è, un altro velo che stendiamo per non guardare in faccia l’inguardabile, l’osceno. Pensa invece: botte, abrasioni, buchi, lacerazioni, ogni torero è un reduce e una marionetta disarticolata lanciata in aria. È la morte impura dell’animale, allora, il corpo umiliato dell’uomo che dà alla morte pura e alla statua di sé il senso, cioè la direzione, quella tensione utopica che ci spinge sempre e ancora verso la corrida perfetta. La tauromachia però è contraddizione, è dare la morte nascondendola nella tendenza, direi proprio nel gusto, che ci fa credere che bisogna darla in modo corretto e rapido, come se questo fosse il punto. Il punto invece è che la forza della corsa è nello scavare delle zone di indeterminazione, quelle in cui l’equilibrio tra serietà e buffoneria, tra eleganza e frana grottesca va negoziato minuto per minuto. L’attitudine talebana che fa della purezza un fine e un ricatto (il toro che le ha tutte, il torero quasi invisibile che lo mette in valore, la bestia intoreabile ma la gamba comunque in avanti) mi da un senso della corsa, ma mi priva del piacere didattico dell’errore, della medietà (non della mediocrità), dell’un poco e del quasi. Soprattutto mi priva della capacità, del diritto, anzi, di contraddirmi. Manzanares figlio è un pupazzo odioso ma a volte fa dei recibir accecanti, Morante è un panzone psicopatico ma se gli gira davvero è un’unica colata di bronzo con l’animale. La soppressione della contraddizione, ieri, mi avrebbe fatto perdere qualcosa di importante. Il Domecq collaborativo e franchista, le poncinas, il feticismo nimense, le orecchie che cadono a neve, beh, vorrei quasi dire che non me ne frega niente.

La corsa ha la capacità di far parlare sempre, ma pensare, diventare una cosa che esce dall’arena, dai caffè, dalle tertulias, la corsa che esce dalla corsa è un’altra cosa, ed è meno a buon mercato. Lo avevo capito nel senso di straniamento e quasi di imbarazzo che mi ha dato Joselito quando a Istres ha toreato un toro praticamente senza corna su l’Hymne à l’amour di Edith Piaf. Ieri Ponce ha lidiato il primo toro (un vigliacco che ci ha messo dieci minuti, dico dieci, a uscire dall’ombra del toril al ruedo…) sulla musica di Mission di Ennio Morricone. Bello, molto, comunque. E nella messa a morte del quarto, l’immancabile Domecq, ecco un tizio in première B che si alza e si mette a cantare (bene) l’ultima parte di Nessun dorma. L’arena mormora, che cazzo fa questo, come si permette, ma Ponce, che ama l’opera, capisce di poter fare qualcosa, e anziché fermarsi parcheggia il toro, si carica, e in un accordo non cercato, al terzo “vincerò”, un “vincerò” forse un po’ troppo protratto, la stoccata cremosa cala nel corpo nero esattamente quando deve calare. Proprio un’unica nota di sangue. Ora, se c’è una cosa che odio è un’arena ignorante e compiacente. Manzanares ad esempio è invariabilmente capace di riempire i gradini di un particolarissimo pubblico da spiaggia, cafone ed emotivo. Ma ieri, al terzo “vincerò”, quando la spada è entrata, ero uno di loro, turbato, commosso.

Emozionato, ecco cosa.

L’emozione, che avevo perduto nel labirinto tecnico e intransigente della severità di giudizio, era lì per ricordarmi e farmi pensare che dal letame nascono i fiori. Che la corrida, senza la sua controfigura peggiore, non è niente. O non è per me.

Ci vediamo a Madrid,

un abbraccio,

M.

* * * * *

Piacenza, 30 maggio 2015

Chapeau, Matteo.

Per la densità delle tue riflessioni e per l’importanza delle tue parole, ecco, grazie, avevo bisogno di questa intrusione dirompente nella nostro accidentato, bulimico, esaltante e torrenziale scambio di mail, di questa verità, di questa sincerità, di questa passione. Mi tocchi, e mi accodo con piacere, ché ogni giorno che non passiamo a parlare di tori è un giorno buttato via.

Antico dibattito anche tra noi, se e quanto e quando la consapevolezza tecnica, del merito e nel merito, tolga ossigeno e soffochi il piacere, il brivido, l’illusione e la meraviglia. Mi sento spesso sul crinale, pronto a franare perdutamente giù da uno dei due versanti, da una parte trascinato dalla pancia e dal cuore quando Morante a Bilbao inventa una faena onirica e irripetibile e magica e trasporta trippe e cuori in una dimensione che è effimera ed eterna insieme, o invece risucchiato dalla perfezione algida della purezza quando un torero di terzo piano, in un’arena di un paese bitumoso e squallido affronta bestie feroci applicando dogmatico ogni canone della verità e della tecnica pura, negando ogni possibilità al bello ma dando una speranza alla grandezza, indicando la via per la purezza.

Dilemma proprio degli aficionados avisés, contrattazione faticosa e mai risolta con i propri sé in conflitto, puntuale e implacabile, di ogni pomeriggio passato sui gradini: della faena di Tomasito a quel novillo di Palla, una mattina luminosa di settembre ad Arles, non ricordo quasi nulla, nessun passo o nessuna collocazione, se non che dagli ottoni di Chicuelo colava una melodia struggente e definitiva, il Concierto de Aranjuez che accompagnava le mosse sinuose e spiritate di quel ragazzetto che là in basso sfidava un toro danzando con lui. La pelle d’oca ancora adesso, ogni volta che una radio qualsiasi gracchia quello spartito. Non saprei dire se quel giorno Tomasito la gamba l’avesse messa o no, e non me ne è mai importato niente. Al contrario ogni volta che Robleño a Céret un paio d’anni dopo, uno, due, tre, fino a sei Escolar tutti per lui, ogni volta che ha messo la sua cintura perpendicolare all’assalto di quelle dodici corna, ogni volta che ha fuso geometria e verità e oggettività (c’è un’oggettività in tauromachia? Sì, c’è, pazzesco, ma c’è) so di aver applaudito bruciandomi i palmi, e non per le scintille di commozione e per le lacrime, ma per la pienezza della verità, per il tributo alla tecnica e alla giustezza, per il conforto della razionalità applicata, a prescindere. Il conforto salvifico della razionalità in un dominio che è esaltazione dell’irrazionale, dell’irrazionalmente bello e possibile.

Certo poi ognuno di noi è, prima che aficionado, uomo. Uomo. E sono uomini e donne quelli che si siedono all’arena, ognuno con il suo portato di sentimenti e convinzioni, che prescindono la dimensione di appassionato ma che in quella inevitabilmente si riverberano. E per questo dunque so di essere più sensibile e incline al giubilo di una gamba messa come va messa o di un’entrata en corto y derecho che non ad un lampo fugace e certamente scintillante ed eterno ma magari (il Morante che citi tu) sciolto in un’esibizione inadeguata o irrispettosa.

C’è che la corrida, per quanto mi riguarda, è cosa seria e con tutto la affronto ma non certo con leggerezza: perché ad ogni corsa, sistemandoci scomodi in quei tendidos, accettiamo che la funzione abbia inizio e che sei bestie vengano sacrificate e che una quindicina di uomini almeno metta a rischio la propria pelle, in senso figurato e oggettivamente, come suggerisci tu. E dunque non riesco, per incrostazioni mie e aprioristiche, a barattare la vertigine della bellezza con lo scempio simoncasasiano di tori diminuiti e cedimenti diversificati in termini di rigore e moralità. Ecco dunque perché, a volte certo trascendendo e invece spesso con malcelata fatica, mi trovo – consapevole ma incapace di altro – a trasformare in rigidità e (apparentemente) sterile partecipazione quel fuoco di passione e quell’insana aspirazione all’eternamente bello che mi divorano in ogni arena, che mi muovono e che mi tormentano quotidianamente anche in tutti questi mesi così lontano, irrimediabilmente lontano, dai tori.

La purezza della morte non esiste, è chiaro: la morte è tautologicamente schifo, costituzionalmente orrore, inevitabilmente dolore. Ma nella corrida tutto è dimensione altra e dinamica inedita e nella corrida esiste la purezza nella morte. Ed è quella, quella, che forse cerchiamo e che vogliamo raccontare, è sicuramente quella che io anelo e desidero, e a volte spocchiosamente pretendo. E’l’uomo che si protende veloce e dritto in mezzo alle corna del toro, suicida ma onesto, inacettabile ma vero, a rendere non certo pura la morte ma puro il gesto, l’afflato, l’ambizione. Non è il sangue che i polmoni vomitano, non è il puzzo già di cancrena e carcassa, non è l’agonia penosa…non sono queste le cose che mi scuotono, ma sono invece il trucco istituzionalizzato e la rinuncia maliziosa alla verità gli elementi che mi turbano e contrariano, molto, fino a farmi propendere all’astensione.

La corrida, intimamente e fisiologicamente, è cosa irrimediabilmente imperfetta che però ogni volta aspira e anela al sublime: pertanto l’aficionado non può che essere contraddizione fatta carne che però, ogni volta, non pretenda di vibrare per nient’altro che l’assoluto.

C’è un angolo di Arles, un incrocio tra una viuzza stretta con le case sgualcite e dalle persiane azzurre e verdi e una piccola piazzetta da cui, improvvisamente, ci si affaccia sull’anfiteatro. Come a Chartres, dove camminando per le vie del paese nemmeno ci si accorge della presenza della cattedrale, che invece girata la via giusta improvvisamente si impone alla vista e toglie il respiro, maestosa, opprimente, luminosa. Ecco, ogni volta mi trascino a quell’incrocio e poi scendo per l’arena, ma è quando arrivo lì che mi sento pieno, felice, sconvolto di emozione. Che poi quel giorno ci sia El Fandi o una corsa di Maria Luisa, cambia poco, e in quel momento, in quel momento preciso di estasi e fanciullesco sognare, me ne sbatto il cazzo.

A Madrid non ci vedremo, no, che a giorni nasce il piccolo.

Conoscerà i tori, questo sì.

Abrazo,

L.

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